Mill’anni fa, migrante in Argentina quindi in Spagna, ero solita tornare in Italia per le feste comandate e la più comandata di tutte era il Natale. Una presenza preponderante in casa era il televisore urlante. Esuberanza sonora a parte, questa ingombrante entità incideva direttamente nel mio subconscio facendomi notare a chiare lettere quanto si cambia stando fuori. Avevo perso l’abitudine infatti al mercimonio continuo di mammelle e fondoschiena fasciati da lustrini; devo ammettere che ciò mi indusse a dubitare se per caso non stessi intraprendendo la via del puritanesimo, gettandomi nello sconforto che mantenni sempre occulto alla festante famiglia. In verità espressi in qualche occasione delle perplessità, ma in risposta ottenni solo arcate sopracciliari ancora più arcuate, per cui ne dedussi che quel night-club da spogliarelliste pomeridiano intitolato l’Eredità, era considerato perfettamente normale dalla famiglia media italiana e che la Misfit (=la spostata) ero io.
Ad attirare la mia attenzione fu appunto l’Amedeus il cui nome vanta un’inquietante latinità degna delle tenebre del convento descritto da Umberto Eco nel suo celeberrimo romanzo. Il singolare personaggio mi risultava burocratico e privo di empatia, o meglio, dotato di quell’empatia “parlata” e ben redatta, ma vuota, che avrebbe caratterizzato la generazione di venditori di fumo, poppanti negli anni ’80 e sul mercato agli inizi del nuovo secolo. Nel suo scientifico approccio, il presentatore non avrebbe mai riscosso il calore umano da “volemose bene” del compianto Fabrizio Frizzi. Costui riservava la stessa espressione imperturbabile da ragazzino da oratorio ai primi turbamenti al concorrente impacciato -di cui sottolineava l’imbranataggine, memore delle lezioni del Grande Maestro Mike– e ai deretani delle soubrette che ogni tanto entravano in scena per frantumare il tedio serotino implicito nella “profusione di cultura” a cui il programma ambiva. La sollecitazione della cupidigia raggiungeva punte massime nel momento in cui la generosa Giovanna scuoteva le natiche, in un primo piano non indicato per lussuriosi affetti da cardiopatie, per determinare le sorti del concorrente. Con l’avvento della presidenza a cura di Lucia Annunziata, tale stacchetto venne segnalato come poco idoneo alla fascia oraria e lesivo nei confronti dell’immagine femminile, dimostrando la scarsa sensibilità della Presidentessa per le esigenze sub-ombelicali dei telespettatori maschi. Ne scaturì una polemica con minacce varie che sfociò nel 2006 nella figura delle “Maestrine” o “Professoresse” che dir si voglia, ovvero altre ragazzine Coccodè che continuavano a mostrare il deretano, ma munite di occhiali e aventi il dono della favella.
Nella cronologia di farfalle di Belén e scandali vari prima, durante e dopo Sanremo, la Rai dimostra di non aver mai superato il passaggio dal sisma del fondoschiena di Giovanna alle “maestrine” di Carlo Conti. È un dato di fatto e stupisce che si continui a cercare in un festival di canzonette una risposta sociale. Ma quando il festival ci prova a modernizzarsi, fallisce regolarmente. Si osservi infatti che, una volta messo sotto pressione, il buon Amedeo non solo snocciola il suo background con la spontaneità da ragazzo rampante, sicuro di sé e delle sue formule obsolete, ma ha la grande trovata di proporre la partecipazione di un Junior Cally, predicatore di stupri e droghe varie, in un tentativo di svecchiare l’ambiente. E qui emerge il tirocinio ben svolto delle regole d’oro della buona vendita con modalità estreme: scalpore effimero e funzionale a un marketing allusivo a ideologie che è lontanissimo dal comprendere. (n.z.b.)
Testi: Nadia Zamboni Battiston
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