L’articolo di Carles Geli su El País di oggi, che riporta le interessanti riflessioni che il filosofo Byung-Chul Han ha esposto in una conferenza presso il Centro de Cultura Contemporánea de Barcelona (CCCB), si intitola “Oggi sfruttiamo noi stessi mentre siamo convinti che stiamo lavorando per realizzarci”. Leggendolo, il primo riferimento che mi è venuto in mente è la tipica differenza tra la situazione di chi svolge lavoro dipendente e chi svolge un’attività in proprio. È un dato di fatto che chi svolge lavoro dipendente spesso cova l’ambizione segreta di mettersi in proprio per smettere di dover sopportare l’isteria di capi e capetti. Dal canto suo, chi lavora in proprio, se vuole arrivare da qualche parte, finisce per imporsi una feroce autodisciplina e senza possibilità di rivendicazioni sindacali, per giunta. Le due situazioni finiscono per presentare minime varianti perché il sistema a cui entrambe devono rispondere si fonda sulla logica univoca della produttività da cui dovrebbero derivare, teoricamente, maggiore stabilità economica (ma oggi come oggi, ciò non è affatto scontato), maggiori guadagni o prestigio. Questo mio particolare riferimento è sicuramente di parte (essendo io un lavoratore autonomo) e incompleto per quel che concerne le motivazioni che contribuiscono alla similitudine tra i due mondi. E qui mi appoggio senz’altro all’articolo di Geli, integrandolo con qualche mia osservazione.
Si osserva nella vita quotidiana come i “macrodati” abbiano preso il timone di moltissimi aspetti della nostra realtà: nell’articolo si cita il caso della tecnologia di riconoscimento facciale attraverso le quali si accede o meno a determinati luoghi. Mi permetto di aggiungevi il comportamento delle borse dove “algoritmi intelligenti” inviano l’ordine di vendita di azioni in risposta a determinati fattori. O ancora, la pubblicità che appare nel nostro browser, perfettamente sintonizzata con le ultime ricerche che abbiamo fatto in Google, senza parlare delle reti di contatti che ci scelgono il partner ideale per una serata, o per il resto della vita. A questo punto il pensiero umano potrebbe divenire superfluo, considerato che i dati hanno il potere di far funzionare la realtà e di controllare i comportamenti. A confermare questa pericolosa tendenza c’è il ruolo cruciale che Facebook e Twitter svolgono durante le campagne elettorali, o in funzione della popolarità di politiche e politici.
I social network agevolano la comunicazione? In teoria son nati per questo, ma, secondo Byung-Chul Han favoriscono piuttosto un’omogeneizzazione della realtà. Nel social network cerchiamo quello che ci piace e ci somiglia, in pratica, diamo vita a una realtà fatta di teste simili (salvo animosità occasionali che finiscono con la rimozione dell’amicizia). Cito testualmente l’articolo: “Senza la presenza dell’altro, la comunicazione degenera in uno scambio di informazioni: i rapporti sono sostituiti da connessioni e così ci vincoliamo solo con ciò che è uguale a noi; la comunicazione digitale coinvolge esclusivamente la vista, abbiamo perduto tutti gli altri sensi, ci troviamo in una fase di debilitazione della comunicazione come mai prima d’ora: la comunicazione globale e dei like consente l’accesso solo a coloro che sono più uguali a noi, quello che è uguale non provoca dolore!”. Se si considera che l'”esser visto” è lo scopo fondamentale della presenza in rete, la connessione con gli “uguali” diventa un prolungamento dello specchio di cui ogni buon narcisista non può fare a meno.
Il concetto di uguaglianza in questo caso si riferisce esclusivamente all’assenza del “diverso” e di ciò che ci obbligherebbe al confronto. Sollevando la testa dal cellulare mentre camminiamo per strada, o in metropolitana, incroceremmo lo sguardo di un essere umano, magari vestito in un modo che non ci piace, magari insolente; la persona in questione potrebbe chiederci un’informazione, o monetine per comprare qualcosa da mangiare. In entrambi i casi dovremmo scomodarci a reagire. Perdendo l’allenamento al confronto, va da sé che tutte le “novità” sociali, e nell’articolo si parla specificamente degli immigrati, diventino un disturbo identificato soprattutto con la fatica necessaria per l’assimilazione. Il dispendio economico che l’accoglienza comporta fa scaturire risentimenti, o invidia per dei privilegi immaginari (tra cui anche il fatto che i paesi di provenienza del migrante spesso sono tra i più gettonati per le vacanze dagli occidentali).
Una società “di uguali” genera quello che il filosofo definisce come “il deserto, o l’inferno, dell’uguale”. A cosa serve una società del genere in cui, a differenza della società descritta da Orwell in 1984, non esiste neppure la consapevolezza dell’essere dominati? Serve fondamentalmente alla produzione. Il capitale ha bisogno che tutti siano uguali, turisti inclusi. Troppa varietà umana ostacolerebbe il neoliberalismo. Il ritmo accelerato delle economie “in crescita” impedisce il tempo di permanenza in tutto. L’auto-sfruttamento deriva dall’incapacità di smettere di tentare di produrre quello che ci viene richiesto anche nel momento in cui avremmo diritto a quella che anticamente si chiamava “ricreazione”. L’auto-sfruttamento senza sosta, illude l’individuo facendogli credere che sta percorrendo la strada verso la piena realizzazione. Ed ecco che l’antico detto che “noi siamo il peggior padrone di noi stessi” trova conferma, ma con l’aggravante che “il peggior padrone” che abbiamo dentro fa leva sul nostro narcisismo e sulla fondamentale paura dell’essere umano di essere diverso e quindi di essere respinto.
L’epoca attuale viene definita da Han come un’epoca di conformismo radicale in cui la povertà spirituale è alimentata, ad esempio, anche da un’università che ha “clienti” e che pretende di sfornare “lavoratori”. Aggiungerei che anche l’ospedale ormai ha “clienti” e non “pazienti”. Politica e sport denunciano ormai apertamente lo svuotamento di valori e di spessore.
Siamo in una fase-limite che rischia di provocare un’implosione; Han non esclude che in futuro un cortocircuito provochi il recupero dell'”animale originale” nascosto al nostro interno, dove “originale” significa il saper rivelare e rivendicare l’unicità. (n.z.b.)
Byung-Chul Han, nato a Seul, attualmente insegna Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino; autore di saggi che trattano di globalizzazione e ipercultura, è considerato uno dei filosofi contemporanei più interessanti.
Fonti:
El Pais, “Ahora uno se explota a sí mismo y cree que está realizándose” di Carlos Geli
Edizioni Nottetempo, Byung-Chui Han
Wikipedia (biografia e bibliografia)
Traduzione estratti dall’articolo originale su “El Pais” di Carles Geli, Nadia Zamboni Battiston
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