Vedendo il luminoso dipinto di Noah Buchanan mi ritorna in mente una serata d’estate di una vita fa, quando ancora esisteva l’usanza di spedire i bambini in colonia e io esistevo da circa dodici anni. La “casa circondariale estiva” era gestita dalle suore. La notte condividevo con altre venti puberi una camerata di stampo militare, ingentilita da cristi in croce e materne madonne. Le nostre giornate erano effettivamente luminose come il quadro di Buchanan, tuttavia a protendere la mano misericordiosa invece della Vergine Maria c’era piuttosto una spazientita suorina dalla veste bianca la cui intenzione non era esattamente quella di benedire (non almeno nell’accezione ufficiale del termine). I felici momenti di mare, sabbia e sole, si alternavano a tediose pause, come il riposino coatto nella calda estate pesarese, o qualche serata piovosa che comportava la deportazione in camerata subito dopo cena. Fu in una di quelle umide serate che ci venne proferito un memorabile insegnamento.
L’orario delle “signorine” finiva alle sei, per cui la sorveglianza notturna, con tanto di sentinella in bagno tutta la notte, era affidato alle suore. Notando una certa turbolenza nell’ambiente, la suora di turno pensò bene di intrattenerci con un racconto ameno nella speranza che la noia prendesse il sopravvento e ci addormentassimo al più presto. La scelta ricadde su di una storia che esercitò esattamente l’effetto opposto. Per dare maggiore consistenza al racconto, la suora differenziava le voci dei personaggi e, pur con arte dilettante, ne interpretava i movimenti. Cominciò dunque a narrare la vicenda di una bambina della nostra età che accudiva i fratellini, preparava da mangiare per tutti, poi andava a lavorare sui campi e, se le avanzava tempo, andava in chiesa a pregare. Tutto sembrava filare liscio fino a quando un giorno un ragazzo del paese si intrufolò in casa sua con la chiara intenzione di indurla in tentazione. Credo che questo sia stato il momento di massima audience in platea. Cos’era la “tentazione”? Speravamo che la suora ce lo dicesse una volta per tutte. Fresche di cresima, ne avevamo sentito tanto parlare in chiesa e al catechismo ma nessun prete si era preso la briga di spiegare in dettaglio di cosa si trattasse. Anche la suora glissò, ma ad un certo punto fu costretta a simulare la resistenza della bambina alle avances del ragazzo. L’improvvisata attrice ripeteva sospirando “No, no, no” e buttava il capo all’indietro dando a intendere che la povera bambina veniva sospinta verso una parete, o un tavolo. Non sembrava in serio pericolo, ma si coglieva l’allusione a qualcosa di turpe ed accattivante allo stesso tempo, a cui né la bambina, né noi avremmo mai dovuto cedere. Qual fu il nostro sconcerto all’udire che il vile aggressore, imbestialito dal rifiuto, prese un punteruolo e l’accoltellò 14 volte. E qui va segnalata l’interpretazione della religiosa che, in preda a orrore e pietà, simulò i fendenti sul proprio corpo con un realismo per nulla disprezzabile. A questo punto ci saremmo aspettate il pronto intervento dei carabinieri a cavallo, l’arresto immediato e la punizione esemplare, anche perché la povera bambina morì. Ma la storia riservava ancora delle sorprese. Tanto per cominciare, la bambina, prima di spirare, perdonò l’aggressore. Intimamente tutte ci eravamo identificate con la protagonista, ma sono sicura che nessuna di noi pensò all’anima dell’assassino, semmai pensò alla propria che si sarebbe allontanata per sempre dalla casa, dai fratelli, dalla mamma. Maggiormente sorprese fummo quando la bambina ci venne additata dalla suora come esempio da seguire nel caso venissimo a nostra volta esposte alla “tentazione”.
La bambina venne santificata nel 1950 e il suo violentatore, giustamente incarcerato, morì in età avanzata, dopo aver condotto una vita devota e di pentimento (d’altronde, in 30 anni di cella, che altre possibilità gli restavano?). Chiaramente il racconto serale sfociò in un certo turbamento generalizzato; il giorno dopo ci fu una riunione segreta in pineta e le più grandi ci spiegarono cosa si intendesse per “tentazione”. Ci capimmo anche meno. In pratica i maschi volevano fare sesso, ma le femmine invece no, oppure si, ma meglio far finta di niente e comunque era senz’altro preferibile morire serenamente piuttosto che cedere. Il perdono era un bonus che ti avrebbe spedito diritta tra i troni e le dominazioni celesti, alla destra della Madre, la Vergine Maria. Non è che la consolazione finale fosse particolarmente convincente e poi c’era un altro punto oscuro: dal sesso derivavano i bambini e tutte le famiglie ne avevano, ergo, cos’era successo esattamente alle nostre madri in camera da letto? L’unica esentata da tale oscuro episodio fu, si sa, la Vergine.
La bambina oggi giace in un santuario, vestita con la tunica della prima comunione. La santità le ha riservato degli onori che in vita non avrebbe visto neanche lontanamente. Figlia di mamma vedova, aveva il compito di provvedere ai fratelli perché la madre doveva andare in palude, a lavorare. L’ambiente della casa era malsano, l’atteggiamento della madre era sbrigativo e manesco. La vita nell’agro pontino era durissima, i contadini che ci vivevano erano relegati ai margini del vivere civile; non è difficile immaginare che in una realtà del genere stupri e soprusi facessero parte della quotidianità. Maria fece eccezione perché le gravi ferite resero evidente la bestialità dell’abuso. Le venti ore di sopravvivenza, nel clamore suscitato dal caso e un confessore che pendeva dalle sue labbra, indussero l’anima innocente a proferire parole che vennero interpretate come un gesto di estrema misericordia.
Nelle buone famiglie c’erano educande, istitutori e componenti maschili della famiglia a tenere sotto controllo lo sviluppo e i turbamenti dell’animo femminile adolescente. In questo contesto, l’affabulazione per scoraggiare la tentazione era piuttosto articolata. Che fare con le masse analfabete? L’esempio di santità che scaturisce dalla vicenda di un’appartenente al ceto più basso aveva tutti i numeri per convertirsi nel veicolo didattico più convincente e diretto. Questo non fu forse l’obiettivo dei padri passionisti di Nettuno, che per primi si preoccuparono di fare in modo che Maria non cadesse nell’oblio. Lo fu più tardi, quando la ragazzina venne riesumata dalla tomba, rivestita con una maschera di cera e canonizzata, in un’epoca in cui c’era bisogno di una figura di ispirazione religiosa che divulgasse sani principi e ispirasse devozione in una società che dava segni di insofferenza e in cui avevano preso corpo le rivendicazioni proletarie. (1)
La parola femminicidio non mi è mai piaciuta. Ha certamente lo scopo di rendere visibile un problema universale sottovalutato da secoli, ma non mi piace perché a sua volta mette in secondo piano un altro dato di fatto dell’umanità: l’inesistenza della solidarietà o bontà tra le qualità essenziali dell’animo umano. Se ne fa una questione di genere per ragioni, ancora una volta, di sintesi di un messaggio che ispira, come vediamo ai giorni nostri, posizioni arroccate e una “guerra tra poveri”. Il sopruso maschile è fondamentalmente autocompiacimento nel constatare la propria fetta di potere sul mondo circostante, ma l’istinto di prevaricazione non è prerogativa esclusivamente maschile, è invece innato in qualsiasi essere vivente perché connesso con la sopravvivenza stessa. Tale istinto, nel corso dei secoli, è stato modulato da culture e religioni in modo da sfornare modelli educativi e comportamenti riconducibili a una convenzione comune. Nella maggior parte dei casi, le prediche dei preti e delle suore avevano esattamente lo scopo di arginare l’innato istinto predatorio e di fare in modo che la comunità divenisse civiltà. Perché allora la storia della bambina che ora riposa in una teca di vetro non convinse del tutto le puberi in colonia a Pesaro?
La storia della santa, così come ci venne raccontata, tralasciava volutamente la personalità di Maria che era vista come un’umile serva, senza sfaccettature. Così erano e sono i poveri, perché non hanno scelta. La bambina, perfettamente indifesa, viene attaccata dal predatore, che gode di presunti diritti, derivanti principalmente dal sesso di appartenenza e dalla forza fisica. Se Maria fosse sopravvissuta e ne fosse derivata una gravidanza precoce, ne avrebbe prese tante da sua madre, sarebbe stata bollata come poco di buono e ripudiata. Insomma quello che l’espressiva suora vestita di bianco voleva trasmetterci è che nel mondo brutale che circonda le bambine solo il martirio ti salva dal gesto che in un batter d’occhio ti trasforma in puttana. Pare una ridanciana conclusione, ma nell’intimo femminile questo campanello d’allarme è rimasto latente per anni e anni e, per certi versi, la “vittimizzazione” (altra parola moderna eufemizzante della più esplicita “puttanizzazione”) delle vittime di stupro è ancora figlia di tale non illuminato assioma.
Nel dipinto di Noah Buchanan la Madonna ha il volto americanizzato che ricorda una certa ragazza di Seattle e Maria porge con espressione saputella i gigli della purezza alla mascolinità barbara, immersa nell’oscurità terrestre. Il mondo celeste e la braccia accoglienti della Vergine sono certamente consolatori per il post-trapasso ma restano decisamente deboli come fondamento motivante del martirio. A Pesaro, la nostra suora d’altri tempi, che faceva le veci della televisione e dei non nati social network in una piovosa serata d’estate, generò involontariamente una sana diffidenza. L’anima pia morì ignorando che quella sera, con la storia della santa, aveva puntato sul cavallo sbagliato e anzi aveva fomentato un’intima ribellione per la quale, tutto sommato, ancora la ringraziamo. (n.z.b.)
(1) Cfr. l’ottimo articolo di Giuseppe Maggiore su AMEDIT “MARIA GORETTI. Storia di uno stupro e dell’invenzione di una santa”
Immagine: Noah Buchanan, St. Maria Goretti, Oil on Linen, 54″ x 132″, 2008

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